Ricordo di Franco Falcone

20 maggio 2001

    Era il 13 aprile 2001 quando Enrico Persi Paoli, il Presidente di questa Associazione, mi telefonò per dirmi che Franco Falcone era deceduto il giorno prima.

    Si scatenò in me una ridda di sentimenti e di ricordi. Come in un improprio flashback, che dicono preceda il trapasso, rividi in un istante tutti gli episodi della vita trascorsa insieme, serrato come in una morsa di dolore, in stridente contrasto con la gioia mista a nostalgia, che fino ad allora avevano caratterizzato quei bei ricordi della nostra comune militanza in età più giovane.

    Ero stordito.  Ma presto l'abitudine alla reazione prese temporaneo dominio e sparai  mille domande all'amico Enrico, alle quali, suo malgrado, non fu in grado di fornire che quelle poche risposte che aveva. Franco si era spento dopo un periodo di atroci sofferenze causategli dalla fase acuta di quel terribile male, la leucemia, con il quale per anni ed anni aveva virilmente convissuto, senza lagnarsene, senza parlarne neppure con gli amici. Avremmo voluto organizzare esequie adeguate, con gli onori delle armi e veglia dei suoi sabotatori, per testimoniare della fruttuosa semina che aveva operato e per dimostrare ancora una volta il nostro affetto. Ma eravamo nella settimana di passione e la liturgia non consentiva che una mera benedizione della salma, sì che ogni nostra possibile iniziativa al riguardo risultò frustrata.

    Telefonai alla vedova, la Signora Ada.  Ebbi così conferma di quanto mi aveva detto Enrico. Percepii, anche, il desiderio di svolgere l'ultimo pietoso atto delle esequie nell'intimità ristretta della famiglia. Ci consultammo tra commilitoni di quei primi tempi dei sabotatori e si risolse di rispettare quelle volontà. Così l'amico Franco si sarebbe definitivamente separato da noi con la discrezione che gli era stata propria per tutta la vita.

    Non é trascorso giorno ch'io non abbia ricordato qualche episodio della nostra vita insieme. Mi é stato chiesto di scrivere il necrologio per la Rivista "Folgore", il mensile dell'Associazione Nazionale Paracadutisti d'Italia e mi sono ritrovato con l'ansia dimenticata da tempo del foglio bianco il cui ricordo era confinato ai remoti tempi scolastici. Nulla mi pareva adeguato alla circostanza e la inderogabile necessità di sintesi si opponeva al desiderio di darne la corretta immagine. Infine mi sono costretto a scrivere: ho cancellato e ricominciato da capo più volte. Ciò che ne é uscito non mi piace e non mi pare renda neppure l'idea del fatto. Solo la convinzione maturata che fosse impossibile - per chi non lo conobbe soprattutto nel tempo neonatale dei sabotatori  e non sapesse cosa significò per quanti avevano servito in armi con lui - apprezzare  il vuoto deter- minatosi in noi, ho licenziato il necrologio e l'ho inviato alla stampa.

    Ma l'insoddisfazione rimase, anzi cresceva di giorno in giorno. Ecco il motivo per il quale scrivo queste righe e mentre lo faccio sento alle mie spalle la schiera dei suoi sabotatori che mi sostengono. Lo so, non sono azioni da intraprendere a botta calda, come si dice: l'esperienza va sedimentata, l'emozione spenta o quantomeno sopita.

    Ho dovuto sospendere di scrivere, perché mi é giunta la notizia che anche l'amico Col. Giancarlo Cubeddu ci ha lasciati. Ieri, domenica 20 maggio 2001, ci siamo ritrovati in tanti alle sue esequie a Santa Lucia in Banditella. Quanti occhi lucidi, insospettabili in uomini temprati da una vita in armi !

    Era il 1953 quando vidi per la prima volta il Ten. Franco Falcone. Io ero nel mio secondo anno di servizio quale Sottotenente di complemento raffermato, nel Battaglione Dimostrativo della Scuola di Fanteria di Cesano di Roma. In quei due anni ero venuto a contatto con la realtà del paracadutismo militare. Nelle mie conoscenze il paracadute era legato al ricordo di guerra ormai sepolto, quando mi capitò di vedere il pilota di un velivolo colpito dalla contraerea che scendeva a terra con un paracadute di seta bianca. Seta che fu trasformata in indumenti: anche a me toccò una camicina. Quando vidi un mio anziano, il Ten. Aniello Colonna, tornare da un periodo di assenza con una gamba ingessata, seppi che aveva frequentato il corso di paracadutismo a Viterbo ed i racconti che ne fece infiammarono la mia fantasia e quella di un collega più giovane, il Sottotenente Claudio Morisi. Da allora presentammo ripetute domande per essere ammessi al corso, ottenendo sempre dinieghi, perché, ci dicevano, eravamo più utili nell'incarico che stavamo svolgendo. Poi l'ala estrema del piano terra della caserma Monti, proprio a lato del mio battaglione, fu occupata da un reparto di paracadutisti: la Compagnia Sabotatori Paracadutisti, comandata dal Cap. Edoardo Acconci, nella quale spiccava la figura del Ten. Franco Falcone, sempre al comando dei suoi uomini con ordini secchi e precisi, sempre di corsa e cantando, con un portamento che destava ammirazione e qualche invidia.

    Assegnato al Reparto il 31 dicembre 1953, non ancora paracadutista, conobbi di persona Franco. Inizialmente mi trattava con distacco - ero un fante - mentre io lo osservavo con attenzione per capirne l'arte del comando della quale era certamente maestro, visti i risultati che otteneva coi suoi sabotatori. Fuori servizio era gioviale, allegro - vero spirito napoletano - sempre pronto allo scherzo, due dei quali ricordo con piacere, anche se intrisi di qualche dolore fisico. Quasi subito mi volle insegnare come si lega un prigioniero ad un albero non avendo a disposizione né corde né altro, ma utilizzando gli arti dello stesso prigioniero. Alla presenza degli altri subalterni mi legò all'albero, premendo ben bene sulle spalle fino a quando le gambe non fossero ben avvinghiate (e dolenti), incitandomi poi a tentare di svincolarmi tra i lazzi degli astanti, che si offrivano di liberarmi  in cambio dell'offerta di una lauta colazione al bar (che naturalmente accettai subito). Del secondo fui vittima sulla zona di lancio dell'aeroporto di Viterbo, subito dopo l'atterraggio del mio primo lancio: ero in piedi, ancora imbragato, con lo straordinario stato d'animo di quel momento, quando un gruppo di sabotatori, con Franco in testa, accorsero festanti per darmi il benvenuto. Tutti mi misero una mano sul capo ed a comando premettero con forza verso terra con un grido rituale. Se avessi ceduto non avrei riportato quel forte torcicollo, che invece mi procurò l'istintiva resistenza, che portai con me nei due successivi lanci di brevetto.

    Franco ci sottoponeva ad addestramento intenso ed impegnativo, naturalmente sempre in testa. Si cominciava con 10 Km. di corsa appena svegli e si finiva spesso a notte inoltrata. Non c'era tempo che per dormire... e non molto. Aveva una vitalità ed una resistenza allo sforzo prolungato veramente eccezionali. Nelle soste delle dure marce con pesanti zaini, mentre tutti si buttavano a terra per recuperare, lui passava dall'uno all'altro, scherzando e ridendo, esortando e ... insegnando. Quando facevamo addestramento al nuoto sul lago di Bracciano, mentre noi eravamo impegnati a fondo per percorrere distanze nei tempi stabiliti, lui di tanto in tanto si faceva la traversata del lago e ritorno a nuoto, sempre fresco e pimpante, sempre allegro. Ma all'occorrenza sapeva essere severo custode della disciplina ed inflessibile nel comminare punizioni, che quando possibile erano supplementi di addestramento, di sudore e fatica. Ad esempio, quando alla Scuola Genio Pionieri della Cecchignola il reparto non consumò il rancio del primo giorno per protesta poiché non vi erano inclusi i supplementi previsti per i paracadutisti, ordinò di lasciare il cibo dov'era e chiudere a chiave il refettorio, poi indisse l'adunata in tenuta da combattimento e zaino affardellato e ci condusse tutti ad una bella marcia di circa 30 Km.. Rientrati, condusse il reparto al refettorio dove era ancora il rancio del mezzogiorno. I sabotatori all'ordine di seduti, si sedettero, ma nessuno impugnò le posate. Ci adunò di nuovo e via per un'altra marcia di circa 20 Km. Non erano pochi i sabotatori che al termine della prima marcia avevano i piedi sanguinanti - tra questi anch'io che avevo gli scarponi nuovi - ma nessuno si tirò indietro e tutti rientrammo cantando i nostri inni.  

    Esigeva molto dai suoi sabotatori e nel tempo stesso ne era lo strenuo difensore contro tentativi di ingerenze o trattamenti ritenuti inadeguati. Stavamo frequentando il corso di alpinismo presso la Scuola MIlitare Alpina, nelle sedi di Aosta e La Thuile. In quest'ultima  il Direttore del Corso era il Cap. Peyronel, un Alpino con la A maiuscola, che aveva appena terminato le selezione dei partecipanti all'impresa del K2 e ne aveva curato l'addestramento finale, animato da una tal passione che, al termine di ogni  settimana di alpinismo che praticava come istruttore, per il fine settimana si recava a pernottare in qualche rifugio d'alta montagna, per farsi una bella ascensione il giorno successivo. Ebbene, noi non avevamo equipaggiamento idoneo (per scarponi da roccia avevamo gli stivaletti da lancio a punta quadrata che rendevano la tenuta dell'appoggio un vero problema; avevamo solo calzini di cotone, tanto che al primo addestramento sul ghiaccio non pochi contrassero principi di congelamento agli arti inferiori), inoltre l'esercizio di arrampicare in parete coinvolgeva parte della muscolatura normalmente non così severamente impegnata e conseguentemente già al secondo giorno eravamo tutti doloranti. Passò il secondo ed il terzo giorno di addestramento ed il dolore aumentava, sì che qualcuno disse a Franco che forse era il caso di rappresentare la cosa al Direttore del corso. Immagino con quale riluttanza, chè per se stesso non l'avrebbe mai fatto, ne parlò al Cap. Peyronel il quale ci scherzò un po' sopra (doveva ben sapere di cosa si trattasse), poi disse: va bene, vuol dire che domani vi poterò al battesimo dei 3.000. Fu così che il giorno dopo, era giovedì, ci arrampicammo sul Mont Colmet, acciaccati e doloranti com'eravamo, affrontando anche passaggi alpinisticamente impegnativi ed esposti. L'allegria non mancava, o almeno Franco cercava di infonderla a tutti noi, magari con degli sfottò. Cito uno solo dei tanti episodi: si era in colonna (uno sopra l'altro) in un canalino che terminava con un difficile passaggio che rallentava il movimento, per cui eravamo tutti appesi, spesso su appoggi e appigli che a noi sembravano inesistenti. La situazione era tesa, i muscoli dolevano e il prolungato sforzo statico faceva vibrare (tremare) gli arti, mentre la vista del vuoto sotto di noi peggiorava le cose. A quel punto, nel maestoso silenzio dell'alta montagna, all'ennesimo sfottò di franco, Antonio Vietri (suo collega di corso) intonò a voce spiegata "guarda o mare quant'è bello). Naturalmente ci fu una risata generale e la tensione si allentò. Qualcuno che gli era vicino disse poi che il Direttore non aveva gradito ... Giunti sulla vetta, dopo aver consumato frettolosamente una scatoletta ci fu dato l'ordine di seguire. Gli istruttori si erano lanciati di corsa verso il basso, saltimbeccando da un lastrone di roccia all'altro, un vero e proprio scramble in discesa. Ad ogni passo il piede, non sostenuto da adeguata calzatura, scivolava in avanti ed urtava contro la punta quadrata dello stivaletto. La sera molte unghie erano nere. Il mattino dopo, di nuovo ad arrampicare in palestra esercitando quei muscoli che ormai parevano fili spinati nella carne. Al termine della giornata, davanti al reparto riunito, il Cap. Peyronel si rivolse al Ten. Falcone, con qualche sarcasmo, e gli disse che visto che eravamo così stanchi ci concedeva il sabato di riposo. Franco a testa alta ringraziò e disse che così avremmo potuto finalmente fare una corsetta fino a Prè Saint Didier. E così facemmo. Il Cap. Peyronel, evidentemente incredulo, venne a controllare in auto. A Prè Saint Didier arrivammo con relativa facilità, visto che il percorso era in discesa, ma ivi giunti ci pareva impossibile tornare indietro. Ed ecco Franco lanciare una sfida a chi fosse arrivato prima, dopo averci suddivisi in nuclei. Buttammo l'anima e nessuno rimase indietro, perchè si sapeva che il tempo sarebbe stato preso sull'ultimo arrivato. Gli istruttori dovevano aver capito che non eravamo fatti di pezza dozzinale e dal lunedì successivo ci ritrovammo tutti amici. Franco fecit.

    Il 31 maggio 2001,  nella corso della consueta riunione del giovedì dei soci al Circolo della Caserma Vannucci, abbiamo appreso che anche il MMA Gaetano Buonocore ci ha lasciati. Alle esequie eravamo in tanti dei sabotatori di allora ed i ricordi si sono intrecciati.

 

    Quando seppe che intendevo sposarmi, col senno di poi dico che ci rimase male, quasi che io volessi consumare una sorta di tradimento nei confronti dell'impegno assunto quando chiesi di essere trasferito al reparto. Un reparto che nella sua entusiastica visione richiedeva una dedizione totale, senza spazio alcuno per una famiglia. In effetti l'attività addestrativa che svolgevamo ci impegnava notte e giorno, lasciandoci poche ore per recuperare energie nel sonno. Avemmo una lunga, concitata conversazione. Franco metteva in evidenza la verità dei fatti, giungendo a suggerirmi di chiedere il trasferimento ad altro reparto meno impegnativo. Io sostenevo che avevo ben descritto alla futura moglie il tipo d'impegno che avevo assunto, che lei condivideva le mie scelte e non intendeva assolutamente intralciarle, anzi. Sostenevo anche che avevo riserva di energia che mi avrebbero consentito di mantenere gli impegni assunti. Ci lasciammo ciascuno con le proprie idee di partenza. Poi seppi che Franco ne aveva parlato con il Comandante del reparto , l'allora Capitano Acconci, giungendo a suggerire di considerare l'ipotesi di allontanarmi d'autorità dal reparto, Vivevo la situazione con molta preoccupazione quasi con angoscia. Poi Franco fu l'unico che venne al matrimonio, dove ci fece addirittura da autista con la sua bella automobile, allegro, con la battuta simpaticamente arguta. La mia tensione era sciolta, ma rientrato al reparto non ebbi sconti: sempre al pezzo, dalla sveglia al termine delle operazioni, ma non mollai e Franco non tornò più sull'argomento.

    Mi fermo qui, anche se potrei raccontare tantissimi altri episodi per suggerire l'immagine di Franco. Soggiungo solo che soltanto qualche anno fa, ai funerali dell'amico Sergio Deidda, mi fece il dono di una confidenza che era anche una prova di vera amicizia. Gli avevo accennato del carcinoma del quale ero affetto e lui di rimando mi disse che da anni lottava contro la leucemia... ed io non ne sapevo nulla. Poche parole, come se si parlasse di qualcun altro.